Filosofo e uomo politico francese. Comproprietario di una tipografia, a partire
dal 1840 si dedicò a un'intensa attività di pubblicista e
polemista. Fu in contatto con i maggiori esponenti del movimento rivoluzionario
europeo, fra cui Blanc, Bakunin e Marx. Aspra fu la polemica che lo contrappose
a quest'ultimo: al
Sistema delle contraddizioni economiche, o filosofia della
miseria pubblicata da
P. nel 1846, Marx rispose con
La miseria
della filosofia (1847), denunciando l'astrattezza delle categorie
economiche, sociali e politiche utilizzate da
P. Nel 1848 fu eletto
all'Assemblea Nazionale e nel periodo successivo diresse una serie di giornali,
tra cui "Le Peuple". Passato all'opposizione dopo l'avvento di Luigi
Napoleone, subì una condanna a tre anni di carcere. A seguito della
pubblicazione del libro
La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa
(1858) gli venne inflitta una nuova condanna, da cui si sottrasse fuggendo a
Bruxelles. Dopo aver ottenuto il perdono dall'imperatore, fece ritorno in patria
nel 1862, rimanendovi fino alla morte. Più portato alla critica e alla
descrizione dei fatti che alla formulazione di teorie,
P. non giunse mai
a elaborare una dottrina sistematica. Nel suo pensiero confluiscono svariate
influenze: dalla Bibbia ai socialisti utopisti; l'incontro con Bakunin e Marx
significò anche un accostamento al pensiero di Hegel. Le due fonti
fondamentali del pensiero di
P. sono J.-J. Rousseau e A. Smith. Dal primo
egli riprese l'idea della libertà come "dato" di natura, la
forte carica antiautoritaria, l'aspirazione a una democrazia diretta; dal
secondo l'identificazione della ricchezza con il lavoro. Sviluppando tale
concetto,
P. affermò l'identità del valore e del lavoro; su
tali presupposti si basa la sua analisi della proprietà sviluppata in
Che cos'è la proprietà? (1840). Contro chi sosteneva che la
proprietà privata fosse un diritto naturale e inalienabile,
P.
vide nella proprietà della terra, come in quella del capitale, il
risultato della posizione di privilegio detenuta dai proprietari. Tuttavia,
secondo
P. è necessario distinguere fra l'aspetto originario e
ineliminabile della proprietà, come possesso dei mezzi di produzione, e
quello per cui i mezzi di produzione si concentrano in poche mani, il lavoro
viene separato dal godimento dei suoi frutti e la proprietà diventa
rendita parassitaria. Vista sotto questo duplice aspetto, la proprietà
risulta sia struttura fondamentale del privilegio sociale, sia cardine della
resistenza degli individui e dei gruppi al dominio statale: la proprietà
non è solo furto, ma anche libertà. Ciò che
P.
propone non è quindi l'abolizione della proprietà capitalistica,
ma solo l'abolizione dell'interesse capitalistico, ovvero del reddito
illegittimo che la proprietà consente di godere al capitalista a spese
del lavoro altrui. Se la proprietà come rendita parassitaria, valore
senza lavoro, è da eliminare,
P. sostiene invece la
necessità di estendere a tutti i lavoratori la proprietà come
possesso. In questo contesto si inseriscono le aspre critiche di
P. a
ogni teoria di tipo comunista: l'idea di una proprietà della
comunità secondo
P. unirebbe agli svantaggi presenti, provocati
dalla proprietà parassitaria, una completa oppressione delle
libertà individuali. All'estensione della proprietà intesa come
possesso di tutti i lavoratori deve far seguito l'abolizione del denaro: gli
scambi devono essere garantiti da un sistema di tipo mutualistico in cui i
prodotti vengono pagati con altri prodotti. Nell'"utopia" proudhoniana
il numerario viene sostituito da buoni, ovvero da certificati di lavoro
già svolto o da svolgersi (credito gratuito). Il sistema sarà
garantito da una banca di scambio, non statale, mentre a un sindacato generale
della produzione e del consumo sarà affidato il compito di controllare
statisticamente i dati sulla situazione del mercato. La società
preconizzata da
P. ha al suo centro la famiglia di tipo patriarcale,
intesa come principio primo della cooperazione sociale e basata sulla divisione
razionale del lavoro. Ogni famiglia tende, per una legge di natura, a perseguire
i propri fini, ma niente impedisce che i contrasti che ne scaturiscono possano
essere appianati nell'ambito di un'elastica struttura sociale, fondata sulla
giustizia reciproca. L'abolizione della contraddizione esistente tra l'egoismo
della famiglia e la solidarietà che lega le famiglie in una stessa
società avrebbe effetti catastrofici, infatti, in tal modo, si
distruggerebbe ogni incentivo al lavoro, poiché l'incentivo principale
è il desiderio di migliorare le condizioni della famiglia.
P.
respinge pertanto ogni proposta egualitaria, affermando che lavori diversi
devono ricevere compensi diversi, in conformità con il principio della
giustizia reciproca. Nel processo di trasformazione della società
è escluso ogni intervento statale, in quanto la rivoluzione non
può che provenire dal basso. Il fatto di considerare l'individuo libero
solo se nessuna autorità e nessuno stato giuridico lo vincola, fa di
P. il precursore di gran parte del pensiero anarco-comunista. Insieme
allo Stato deve scomparire anche la Chiesa, vista come strumento di
conservatorismo e oppressione. Nonostante il suo continuo richiamarsi al
proletariato, l'anarchismo di
P. esprime piuttosto le tendenze e le
aspirazioni delle classi medie, oppresse e schiacciate dal grande capitale che
si stava formando. Il principio della libertà assoluta fatto valere da
P. esprime infatti l'esigenza di tali classi, semiproletarizzate, di
conservare la loro indipendenza, sia nei confronti del grande capitale, sia
verso il comunismo proletario. Nell'opera principale
La giustizia nella
rivoluzione e nella Chiesa,
P. propone lo schema tipico delle
filosofie sociali di stampo romantico: la storia è governata da una legge
intrinseca di progresso e tale legge è la giustizia, intesa come forza
che deve operare sia nella vita del singolo sia in quella della società
nel suo insieme. Secondo
P. la giustizia può essere intesa in due
modi: come pressione della collettività sull'Io individuale, in grado di
modificarlo e di farne un suo organo; come facoltà dell'Io individuale
che avverte la dignità della persona altrui nello stesso modo in cui
avverte la propria e si trova così, pur conservando la sua
individualità, identico e adeguato all'essere collettivo. Nel primo caso
la giustizia è esterna e superiore al singolo ed è posta o nella
collettività sociale o in Dio; nel secondo caso essa è intima
all'Io e omogenea alla sua dignità.
P. considera il primo sistema
come tipico della religione, il secondo della rivoluzione. Mentre tutte le
religioni sono basate sulla trascendenza della giustizia, la rivoluzione afferma
l'immanenza della giustizia nella coscienza e nella storia. Secondo
P. il
progresso non è altro che la realizzazione della giustizia: solo la
storia universale può mostrarlo, ma la storia non si configura come una
necessità di tipo hegeliano, bensì è il dominio della
libertà. La libertà è l'origine del bene e del male, della
giustizia e dell'ingiustizia, ma il suo vero fine è la realizzazione
della giustizia perché solo essa è il suo assoluto. L'influenza
della dottrina di
P. fu profonda e vasta soprattutto in Francia, dove a
lui si ispirarono molte correnti rivoluzionarie non comuniste, tra cui il
sindacalismo soreliano, che videro in lui un precursore del socialismo
democratico di tipo autogestionario. Fra le numerose opere di
P.
ricordiamo, oltre a quelle già citate:
La celebrazione della
domenica (1838),
La creazione dell'ordine nell'umanità (1843),
La guerra e la pace (1861),
Sul principio federativo (1863).
Numerosi scritti furono pubblicati postumi; tra questi il saggio sulla
Capacità politica delle classi operaie (1865) e quello sulla
Teoria della proprietà (1866) (Besançon 1809 - Parigi
1865).